Review by Francesco Paolo Del Re
Published on Segno.
Printed issue n.285 March/April 2022
“A un tempo presente caratterizzato da emergenze belliche, sanitarie, geopolitiche e umanitarie, non può non corrispondere un’arte di crisi e di precarietà. È perciò provvisorio, impermanente e senza opere l’intervento installativo proposto a Curva Pura a Roma da Gian Maria Marcaccini, a cura di Nicoletta Provenzano, non privo di una velatura straniante e surreale, forse canzonatoria ma certamente non accomodante.
Non è lo spaesamento il sentimento che deve provare lo spettatore della mostra; anzi aleggia una fin troppo familiare ambientazione di rifugio, di covo, di accampamento per sfollati, derelitti, marginalizzati, fuoriusciti da una certa quotidianità rassicurante, che l’artista evoca come set esperienziale per la costruzione di un habitat disordinato e caotico.
Nello scenario di una distopia post-apocalittica, si dispongono accidentalmente nello spazio espositivo una serie di segni, di oggetti già esistenti e di elementi scultorei appositamente approntati.
Le tracce disseminate sul pavimento danno alla mostra un senso di lettura orizzontale ed erratico, con uno sguardo che si posa dall’alto in basso su una proliferazione di simulacri e ammennicoli in disparata accozzaglia. Calchi di bottiglie, bicchieri, spazzolini e posate realizzati in gesso, in resina o in terracotta dipinta a tempera, gli enunciati scultorei sono elementi fondativi di una grammatica che vede nella ripetizione delle forme e nella moltiplicazione dei fattori le regole della sua manifestazione. Quello dell’installazione di Marcaccini è però un sistema che tende alla disgregazione del significato, così come eroso e disgregato sembra l’ordine esistenziale che viene evocato dall’immaginario sotteso al suo intervento.
Si accostano scritte al neon di vari colori a grovigli di cavi elettrici, forse per assemblare dispositivi utili alla produzione di sostanze chimiche o batterie. Curiosi apparentamenti di oggetti fanno immaginare possibili storie e sensi di lettura che l’artista non vuole spiegare, lasciando alla libera possibilità di interpretazione del pubblico una mappa di macerie, scorie di un vissuto disarticolato e sconnesso. “Un percorso di tracce simulacrali o simboliche, implosive o disfunzionali”, scrive Provenzano, che “unisce un’estetica di morfologie industriali e componentistiche pratico-funzionali a un permanere di ritualità ancestrali, di conformazioni magico-misteriche e primordiali”.
Quello che interessa a Marcaccini è che ogni visitatore, dal suo punto di vista e rispetto al proprio vissuto personale, possa creare un eventuale percorso narrativo all’interno della mostra, completando liberamente le suggestioni da lui proposte.
All’interno del paesaggio domestico alterato che l’installazione sembra suggerire, l’artista offre solo una base di partenza rispetto alla quale potrebbe intervenire un’operazione di decodifica o di rifiuto da parte del pubblico, in virtù della distribuzione degli elementi e della loro reiterazione nello spazio.
In mostra è esercitata una sovversione della destinazione d’uso dello spazio espositivo, nella direzione di un’ipotesi abitativa inabitabile. Chi è l’abitante di questa occupazione temporanea della galleria? L’artista o il visitatore? Unico vettore verticale della mostra è l’accostamento di tre scale, utile a circoscrivere il perimetro di un giaciglio di fortuna in cui il pubblico può entrare per osservare l’installazione da una prospettiva prossima al pavimento. Ed è lo stesso visitatore il destinatario della domanda che offre il titolo all’intervento di Gian Maria Marcaccini: “Mi presti il tuo spazzolino?”. Una domanda che interroga un’intimità terrorizzante in seno all’epidemia globale che ci ha contagiati ma, a disinnescare il suo potenziale pericolo, arriva la constatazione che tutti gli oggetti che l’artista mette in campo e che afferiscono alle pratiche orali del bere e dell’igiene sono in realtà inservibili, inutilizzabili, calchi pieni che degli utensili originari conservano solo la forma ma non la funzione. Così è tutta l’installazione: la simulazione di uno spazio altro in cui condurre a tempo determinato un’ipotesi alternativa di sopravvivenza, dove tutto parla di sabotaggi e sovversioni. A partire dalle serrande dell’ingresso sollevate con puntelli di fortuna, come se fosse stata un’irruzione ad avere occupato lo spazio. Zona temporaneamente autonoma o teatro della simulazione di un addomesticamento?”